Un anno per Edvard Munch


Munch, riassume i temi dell’esistenza e del destino dell’uomo nell’opera
il suo ritiro volontario dal mondo, nel 1920, è un congedo dalla vita ma non dal suo malessere esistenziale, compagno fedele e complice di un perfido destino

di Antonella Iozzo

munchlurloOslo – Nel 2013 ricorre il centocinquantesimo anniversario della nascita di Edvard Munch, il pittore norvegese, nato il 12 dicembre del 1863 a Loten. Diverse mostre ed eventi si susseguono nelle maggiori capitali artistiche. Intanto a Oslo, la città dove l’artista visse fino alla morte, avvenuta nel 1944, non riesce a decidere dove collocare il nuovo museo a lui dedicato, quello attuale, il Nasjonalgalleriet, è stato, infatti, giudicato inadeguato, soprattutto a seguito dei ripetuti furti, iniziati nel 1994 quando fu trafugata per la prima volta una delle versioni del celebre “L’urlo”, ritrovato e di nuovo rubato nel 2004, insieme a “Madonna”.
I capolavori sono stati entrambi ritrovati due anni dopo, anche se pesantemente danneggiati. Le lunghe polemiche riguardo la sede dove realizzare l’avveniristico edificio di cristallo progettato dell’architetto spagnolo Juan Herreros, conosciuto con lo pseudonimo di “Lamba”, speriamo si spengano accendendo l’emozione dell’importante anniversario su Munch, che ha dipinto la fibra del tormento, il dolore della vita.

Edvard Munch, biografia di un dolore
Un brivido ci attraversa velocemente, lascia il ritratto dell’angoscia sulla pelle del Novecento e sconvolge il corso dell’Arte.
Troppo presto nella vita di Munch compare il dolore, a soli cinque anni perde la madre, morta di tubercolosi, poco tempo dopo aver dato alla luce l’ultimogenita Inger, qualche anno più tardi, un’altra tragica perdita, Sophie, la sorella prediletta, di soli quindici anni, troppo presto conosce i sintomi del dramma e del vuoto esistenziale. Dall’anima di Munch, iniziano così, a staccarsi frammenti di sensibilità che precipitano nel baratro della solitudine.

I suoi dipinti diventano il suo diario, rivelazioni, disagi, tormenti, si stendono nella modulazione cromatica di lamenti silenziosi. Fortemente dotato d’introspezione psicologica, tramuta la sofferenza in pittura, ne dipinge quel senso soffocante e informe che s’insinua tra corpo e mente, procurando spaesamento e accentuando la vertigine del vivere.

Nella sua arte, ormai, la situazione personale, ha assunto un carattere universale, la propria devastazione interiore, lo strazio della propria anima, diviene simbolo del dolore del mondo. Raccontando se stesso, infatti, denudando il suo inconscio, cercandone le venature più nascoste, esplorandone la linfa vitale intaccata dall’intimo soffrire, è giunto a raccontare il disagio esistenziale dell’uomo, è Munch stesso a rivelarcelo: “Come Leonardo studiava i recessi del corpo umano sezionando i cadaveri, io ho cercato di capire ciò che è universale nell’anima attraverso un’indagine minuziosa di me stesso”.
munchmadonnaDentro Munch, un oceano svuotato, un bosco disboscato, un cielo oscurato: ossessioni, la disperazione della follia, il gelo della morte. Una lenta desertificazione che dilania la sua sensibilità ormai trasfigurata in follia, un abisso che lo risucchia dentro il ricordo, dove i fantasmi dei propri cari si aggirano come presenze silenziose, un brevissimo passo del suo diario ce ne trasmette la drammaticità: “Sono vissuto coi morti, mia madre, mia sorella, mio nonno e mio padre, soprattutto lui. Tutti i ricordi, le più piccole cose mi tornavano alla mente”.

La sua anima tormentata dalla paura, dalla malattia, dalla solitudine e dalla malinconia si adagia come un lieve e impalpabile velo sulla pittura, Munch ne segue l’evolversi in quelle pennellate dense, che stabiliscono una continuità tra il ricordo e il presente, e l’atemporalità di un dolore sospeso nel tempo, vive nell’implosione di una straziante angoscia, riversata con forza nei quadri. Una pittura, quindi, che va al di là della semplice funzione estetica, per assumere quasi una funzione liberatoria, una straziante angoscia liquefatta in linguaggio pittorico, in cui sono estremamente evidenti le tematiche più tetre: la morte, la follia, la disperazione, la solitudine.
La morte lascia dietro di se la sua traccia spasmodicanell’espressionismo e si coagula in un convulso simbolismo: amore e morte iniziano la loro macabra danza.

Nell’indissolubilità di un momento, amore e morte incendiano l’esistenza in un tragico amplesso divorato dalla solitudine. Il turbolento, tormentato, difficile rapporto con le donne, lo pone in una condizione di sofferenza estrema e violenta, che lo scuote fin dentro la radice del suo essere. L’incapacità di capire, per mancanza di mezzi analitici, la natura della donna, vista come epicentro di uno sconvolgente mistero sessuale, di carpire le enigmatiche sfumature e le sottili spigolature di un linguaggio proveniente dall’intimità e che parla d’intimità, lo braccano in una desolante palude di amore – odio per la figura femminile. Una misoginia tradotta in complesse visioni, ecco allora, che le sue donne sono raffigurate, di volta in volta, come madonne, vampiri, peccatrici, amanti o virago.

Munch non vive l’amore, ma è vissuto, attraversato, devastato da questo forte sentimento, egli continuamente cerca di dominarlo, di contenerlo, d’imprigionarlo nell’ultimo anfratto d’inconscio, ma una latente inquietudine trama la sua messa in scena.
Nel 1902 in un eccesso d’ira si sparò alla mano, pur di non sposare l’amatissima Tulla Larsen. Il terrore di trasmettere alla nuova generazione, la predisposizione alla malattia e alla follia, che nella sua famiglia avevano regnato incontrastate dominando il destino, lo rendeva vittima e carnefice della sua irrazionale lucidità.

Munch, pittore della morte, della follia, della tristezza, un pessimismo espressivo che conduce alla disperazione della condizione umana. Fortemente influenzato da Nietzche, tutta la sua arte trabocca del pensiero del grande filosofo, secondo il quale l’artista, essendo uomo superiore, deve necessariamente prendere sulle sue spalle tutti i mali del mondo, la pittura diviene sacrificio, nella quale, però, deve emergere un senso di utilità. La mia pittura, disse Munch: << è in realtà un esame di coscienza e un tentativo di comprendere i miei rapporti con l’esistenza. E’ dunque una forma d’egoismo, ma spero sempre di riuscire, grazie ad essa, ad aiutare gli altri a vedere chiaro >>.
munchvampiroMunch intende esprimere con la pittura l’angoscia di vivere, svincolandosi dal puro piacere estetico e rifiutandosi di realizzare ciò che definisce “piccole tele con la cornice dorata destinate a ornare le pareti delle case borghesi”. Un’arte che va oltre, che si spinge al simbolismo sintetico di Gauguin, di cui studia e ammira profondamente le opere. Entrambi, infatti, sono spinti dal desiderio di esplorare il destino umano, entrambi sono proiettati nel divenire cosmico, nell’infinito mistero della coscienza e del limite posto dalla conoscenza. Entrambi realizzano due opere che sono l’uno il riflesso dell’altra: Donde veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? di Gauguin e il Fregio della vita di Munch. Due opere in cui le tematiche si sviluppano seguendo le linee elaborate dal pensiero metafisico, e che in pittura si traducono nelle linee curve tipiche dell’Art Nouveau, utilizzate sia da Gauguin che da Munch per scopi espressivi e spirituali. Per Munch, a differenza di Gauguin, , tutto nasce, si fonda, si muove dal dolore, tutto s’identifica, fin dagli albori del mondo, con il dolore, un primitivo segno dell’impossibilità di vivere. A tal proposito un suo amico scrisse nel 1890, che Munch non aveva bisogno: “di andare a Tahiti per scoprire quanto c’è di primitivo nell’umana natura. Perché Munch porta la sua Tahiti dentro di sé”.
Le sue opere attrassero gli espressionisti tedeschi , ma Munch dall’espressionismo evitata i forti contrasti cromatici, i suoi colori molto meno stridenti, parlavano del proprio malessere, e dei sentimenti ormai alla deriva dell’intera realtà. Una voce che si prolungava attraverso la sinuosità del colore e morbidamente ne modulava la malinconia. Munch del suo tempo rispecchiava non solo le ansie e le inquietudini, ma i cambiamenti di una società a cavallo fra due secoli, quali, le teorie freudiane e la cultura scientifica, ma, se da un lato potevano risolvere gli enigmi che da sempre attanagliano l’uomo dall’altra sgretolavano la centralità dell’ uomo. L’illusione dell’Uomo, quindi, al centro dell’universo si andava lentamente frantumando.

Il suo ritiro volontario dal mondo, nel 1920, è un congedo dalla vita ma non dal suo malessere esistenziale, compagno fedele e complice di un perfido destino: “Un uccello da preda si è fissato dentro di me. I suoi arti sono penetrati nel mio cuore, il suo becco ha trafitto il mio petto, e il battito delle sue ali ha offuscato il mio cervello”, quasi un preludio agli ultimi avvenimenti che ancora lo attendevano: alla cecità quasi totale dell’occhio destro sopraggiunta nel 1930, seguì l’ultimo atto del suo essere al mondo. Nel 1937, in Germania, ottantadue sue opere furono giudicate dal regime nazista arte degenerata e rimosse dai musei, ciò accadeva nello stesso paese che nei primi anni novanta dell’800 lo avevo lodato, ultimo tempo di una tragica sinfonia.
Tutta l’arte di Munch è musica interiore, è memoria del disagio, è la cadenza dell’infinito nell’intimo sentire dell’urlo, onda anomala soffocata nell’oblio dell’esistenza.

Viaggio tra le sue opere
munchlabambinamalata<< Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di rosso sangue. Ho sentito un urlo attraversare la natura. Ho dipinto questo quadro, ho dipinto le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando>>. Con queste parole, Munch, racconta la genesi del suo dipinto più noto. Una suggestiva visione, un viaggio tra ciò che l’occhio vede e ciò che la mente disillusa percepisce, ritirandosi dalla vita.

L’orrore contratto nella profondità dell’inquietudine, s’irritisce nella violenza cromatica e nell’allucinata fusione delle linee. La logica compositiva è di matrice razionale: il soggetto è posto in primo piano sopra un ponte, sul fondo due figure scure che si allontanano e a destra lo spazio aperto su un paesaggio.

Munch, però, trasfigura la razionalità compositiva, riversando su di essa l’essenza del dolore, dando forma all’informe malessere esistenziale, creando il risveglio dell’anteriore tra le fibre sconnesse del mondo; tutto con la linea – forza, vale a dire, usando il segno pittorico in funzione espressiva. La figura, epicentro del dipinto, non ha più nulla di umano, il tormento, il male ne ha smaterializzata la forma rendendola lo spettro di se stessa, la pennellata come una spirale risucchia ogni filamento di vita nel movimento vorticoso del colore. Il cielo, la terra, la natura stessa, modulata come un’onda sonora, fluisce verso il nostro mare d’intimità, avvolgendoci e sconvolgendoci con il suo carico d’angoscia. Un magma denso nel quale non è più distinguibile la linea d’orizzonte, anche perché non vi sono orizzonti nell’espressione della follia, della disperazione, nell’acuto lirismo della solitudine. La superficie del quadro è il riflesso dell’inconscio di Munch e del mondo intero, la natura sembra esserne consapevole scomparendo dietro il colore privato, di qualsiasi elemento decorativo, di qualsiasi suono, di qualsiasi palpato di vita.

Una vita segnata dal dolore, dalla morte, dalla sofferenza, dalla malattia, dall’abbandono, dalla solitudine. simboli che appaiano come presenze inquietanti nelle sue composizioni. Munch, dipingeva non “guardando”, ma “sentendo”: e spesso ciò che sentiva era il silenzio dei suoi morti: il padre, la madre, le sorelle malate, la solitudine. L’incapacità di comunicare, di sentirsi parte integrante del mondo, pone Munch in uno stato d’isolamento che si materializza in quel forte senso di solitudine che domina molti suoi lavori. In “Sera sul viale Karl Johan”, 1892, ritrae se stesso in disparte, una presenza solitaria ed anonima, tra la vita che avanza, tra la quotidianità vissuta dalle persone che passeggiano davanti ai suoi occhi spenti, disillusi su ogni cosa che abbia il colore dell’orizzonte. La terribile verità che la solitudine disegna dentro il suo essere, trasforma i passanti in ombre vaganti per la città. E’ il suo sentire a dipingere, a ritrarre se stesso coma una piccola macchia inghiottita dalla notte. Anche il rapporto di coppia non rimane alieno alla solitudine, né “Gli occhi negli occhi”, 1894, infatti, i due amanti sembrano quasi dei fantasmi. Munch dipinge l’uomo, forse se stesso, in modo livido, come se fosse un cadavere, e la donna dello stesso colore del tronco dell’albero che li separa. Un’espressività che toglie ogni piccola speranza d’amore.

munchashes<<La malattia, la follia e la morte erano gli angeli neri che si affacciavano sulla mia culla>>, in queste poche parole scorre, il nervo della sofferenza, scosso dai traumi vissuti duranti l’infanzia e l’adolescenza: la morte della madre, del padre, la malattia e la morte della sorella Sophie. Incubi quotidiani che Munch traduce in pittura nei temi delle stanze, dei letti; della malattia, della morte, ecco allora, “La bambina malata”, 1896, “Il letto di morte”, versione del 1893 “Il letto di morte”, versione del 1895, “Madre morta e bambina”, 1897-99, “La morte nella stanza della malata”, 1893, e “Camera di malata – studio”, 1889.  Sono tracce di silenzio tra le stanze della sua casa, cancellate dal tempo, ma custodite nella sua più segreta intimità per riversarle poi, nei suoi dipinti con il vento algido del macabro ricordo.

Un ricordo che si materializza in ombre oppressive e minacciose, che gravano sulle persone, che quasi plasma le persone, la stanza è impregnata d’angoscia, di strazio, di disperazione come in “Febbre”, 1894, in cui Munch utilizza pesanti strisce nere per enfatizzare la condizione confusa, “quasi delirante” dello stato febbrile, mentre in “Il letto di morte” (1895) l’ombra è una densissima nuvola minacciosa intorno ai personaggi. Munch trasporta sulla tela l’essenziale, immagine pura o sensazione, o interessandosi di rappresentare la realtà in quanto bellezza. I lavori appaiano abbozzati, incompleti, ma è in questa fase informale che Munch riesce a dar forma ai quegli stati emotivi, a quelle emozioni, a quei sentimenti indefinibili e inafferrabili. Le sue forme inquiete e disarmoniche esprimano al meglio il vuoto, il dolore, la solitudine dell’uomo, il nulla che tutto inghiottisce. Ciò che scrive Munch a proposito di “Disperazione” ci può aiutare a capire: “Camminavo sulla strada con due amici, il sole tramontava e sentii come una vampata di malinconia. Il cielo divenne all’improvviso rosso sangue. Mi arrestai, mi appoggiai al parapetto, stanco da morire (…) rimasi là tremando d’angoscia e sentivo come un grande e interminabile grido che attraversava la natura”.
Lo sfondo diviene il fondale in cui l’artista si muove imprigionato, da tiranni senza catene: la malinconia e l’angoscia, che lanciano vampate e grida come anatemi, in una collusione di colore dalle linee sinuose.

Munch riassume i temi dell’esistenza e del destino dell’uomo nell’opera “ Il Fregio della Vita “, in una soluzione di continuità si susseguono immagini in sequenza temporale, che interpretano le quattro fasi dell’esistenza, secondo Munch: la nascita dell’amore, la fioritura e dissoluzione dell’amore, l’angoscia della vita, la morte. L’intero ciclo viene presentato per la prima volta nel 1902, alla Berliner Secession, la stampa gli dedica diversi articoli, ma la sua arte resta sostanzialmente incompresa dal grande pubblico.

La consapevolezza che l’esistenza non sarà altro che dolore, tinge di oscurità il tema dell’amore, che deflagra nelle sue opere. Né “Il Bacio”, l’amore è espresso come passione, come sesso e come perdizione di sensi; una dissoluzione della tenerezza, uno stravolgimento totale del sentimento, un vorace spasmo che annienta la coppia, unita dal bacio, mentre i due volti si confondono nella dissoluzione della carne, ormai in preda al sesso, quindi, non più gesto d’amore ma minaccia.

La crudeltà divorante è evidente anche nell’opera “Il Vampiro” la donna, inganna, affascina divora l’uomo. Una tensione vorticosa che infiamma l’anima di Munch e devasta la sua mente in preda a incontrollabili ossessioni. Donna, amore sensualità, spregiudicata bellezza nella struggente “Madonna”, tensione del corpo nudo, braccia chiuse a cerchio, lirico richiamo nella trascendenza umana del sentimento.
Edvard Munch, un’angoscia consumata lentamente tra le pieghe della pittura, opere, che urlano nel silenzio dell’anima, l’inconsolabile dolore primordiale.

di Antonella Iozzo © Riproduzione riservata
                      (22/02/2013)

Cenni Biografici

1863 – Nasce a Loten, in Norvegia il 12 Dicembre
1864 – La famiglia si trasferisce a Cristiania, attuale Oslo.
1868 – La madre muore di tubercolosi
1877 – Muore la sorella Sophie ancora una volta di tubercolosi.
1885 – A Parigi, grazie ad una borsa di studio, visita il Louvre e il Salon.
1889 – Prima personale ad Oslo. In novembre muore il padre.
1892 – Una sua personale, organizzata dall’associazione degli artisti berlinesi, provoca scandalo e viene chiusa dopo una settimana.
1893 – Si trasferisce in Germania.
1895/97 – Muore il fratello Andreas. Viaggia moltissimo: Copenhagen, Firenze, Roma, Como.
1898 – Conosce Tulla Larsen, la loro storia d’amore finisce nel 1902, anno in cui conosce il medico Max Linde di Lubecca, diviene il suo mecenate e scrive un libro su di lui. Venti tele del “ Fregio della vita “ sono esposte alla Secessione di Berlino.
1904 – Firma un contratto con il mercante berlinese Bruno Cassiere ed espone venti quadri alla Secessione di Vienna.
1912/13 – La Sonderbund di colonia gli dedica un’intera sala. Nel 1913 partecipa con otto incisione all’Armony show di New York.
1916 – Acquista la proprietà di Ekely, dove vivrà fino alla morte.
1927 – La national Galerie di berlino organizza una mostra con 223 dipinti.
1937 – Il regime nazista dichiara 82 suoi lavori arte degenerata e vengono rimosse dai musei tedeschi.
1944 – Muore il 23 gennaio. Lascia tutte le sue opere alla città di Oslo.

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