Nelle mani della Chiesa

Benedetto XVI , nelle mani della Chiesa
Ma un’altra lettura del gesto, quella che incrocia l’affidamento simbolico dell’Agnello alle grazie del futuro Santo, lo stesso capace di dichiarare umilmente i propri limiti e di preferire il ritrovarsi nell’eremo allo smarrimento.
di Antonio V. Gelormini

 

Bari – “Il peso del Pallio” – E’ lungo 2 metri e largo 6 centimetri: il “Pallio” è una stola di lana bianca su cui sono applicate croci di seta, nera per gli arcivescovi e rossa per il Papa, ed é ornato di frange alle estremità. Ha un doppio valore simbolico: rappresenta il Buon Pastore, che porta la pecorella sulle spalle, ma anche lo stesso agnello immolato: il Crocifisso, le cui piaghe si identificano con le croci ricamate (Episcopius Troianus, Gelsorosso Ed. – 2012).
Insieme all’Anello del Pescatore e all’imposizione del Triregno (Tiara), quest’ultima ormai in disuso, rappresenta uno dei segni evidenti, esclusivi ed emblematici della sovranità pontificia pro-tempore. Peso reale: minimo, ma nell’identificazione dell’Agnello con la Chiesa, il fardello sulle spalle di Sua Santità assume un carico specifico alquanto rilevante. Significativo e presago di un Calvario responsabile e impervio, il fatto che Benedetto XVI abbia voluto deporre il suo pallio, proprio quello ricevuto in occasione della proclamazione al Sommo Soglio, come una sorta di ex-voto sulla teca con le spoglie di Papa Celestino V, a L’Aquila. Quasi come a voler chiedere già allora forza, conforto e ispirazione, indispensabili per la sua impegnativa missione, al protagonista del celeberrimo gran rifiuto di dantesca memoria.

Ma un’altra lettura del gesto, quella che incrocia l’affidamento simbolico dell’Agnello alle grazie del futuro Santo, lo stesso capace di dichiarare umilmente i propri limiti e di preferire il ritrovarsi nell’eremo allo smarrimento di un pontificato nella bufera, riporta alla mente un Benedetto XVI rapito dall’enigmatica drammaticità del bassorilievo dell’ambone della Cattedrale di Troia, nella Duania, in provincia di Foggia.
Il bassorilievo, risalente al 1158, era già stato oggetto e copertina di un’erudita pubblicazione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, “Wesen und Auftrag der Theologie” (Natura e Compito della Teologia ) – Johannes 1993.
A riguardarlo, oggi ancora, impressiona come sintetizzi, con rara forza espressiva, lo stato d’animo di un mortificato Benedetto XVI. Amareggiato dalle divisioni della Curia romana, nonché dalla disinvoltura di critiche approssimate e precipitose, che da quei corridoi non hanno esitato ad investire lo stesso trono del successore di Pietro. “Purtroppo ancora oggi nella Chiesa c’è il mordersi e il divorarsi a vicenda, come espressione di una libertà male intesa”, aveva a suo tempo ammonito il Papa. Facendo sue le parole di Paolo, in preda allo sconforto, in una drammatica lettera ai vescovi
Il bassorilievo nella Basilica romanica pugliese mostra tre animali, che l’artista scolpì come riflesso delle condizioni della Chiesa ai suoi tempi. Un agnello sopraffatto dalla potenza divoratrice di un leone e un cane da pastore, che col suo morso coraggioso distoglie a sua volta la belva dalla presa sull’inerme. Non è potente quanto il leone e potrebbe esserne la prossima vittima, ma entra con decisione nel conflitto e cambia la piega degli eventi. Il Papa, che naturalmente si identifica nella sua Chiesa, o meglio nella Chiesa della fede (l’Agnello attaccato dal leone feroce, che lo tiene tra i suoi denti e ne ha già divorato una parte del fianco), si direbbe che si senta la vittima indifesa.

“Tempo addietro – racconta il cardinale Ratzinger – uno studioso amico mi aveva descritto la scultura, che per lui raffigurava un’allegoria della teologia, che è una vera e propria ‘laus theologiae’, una esaltazione della teologia nella Chiesa e per la Chiesa.

Non ho potuto consultare degli esperti in storia dell’arte e non so da dove il mio amico abbia tratto la sua interpretazione, quindi sarei del parere di lasciare aperto l’interrogativo sulla sua lettura esatta. Pertanto, visto che l’opera risale al periodo del conflitto tra il papato e gli Hohenstaufen (il casato di Federico II), potremmo pensare alla lotta per il potere tra la Chiesa e l’Impero.

Ma sarebbe probabilmente più esatta un’interpretazione dal punto di vista dell’iconografia cristiana classica. Dove il leone rappresenta il demonio o, più concretamente, l’eresia che strappa la carne alla Chiesa e la divora. Il cane bianco potrebbe essere il simbolo della legalità o fedeltà: agisce al posto del pastore, che “dona la sua vita per le sue pecorelle” (Giov. 10,11). La sola domanda che resta è: dov’è la teologia in questo drammatico conflitto? Secondo il mio amico, il cane coraggioso che salva la fede dall’attacco del leone è la sacra dottrina.

Ma più rifletto, e ammesso che possa così interpretarlo, più penso che la scultura lasci la questione piuttosto aperta. La sola figura chiara sotto ogni punto di vista è l’agnello che rappresenta la Chiesa. Ma gli altri animali, il leone e il cane, non potrebbero rappresentare due possibilità, due alternative per la teologia?
Il leone non potrebbe rappresentare la tentazione storica della teologia d’imporsi alla Chiesa, alla fede? Non potrebbe rappresentare la ‘violentia rationis’, questa ragione dispotica e violenta che Bonaventura, un secolo più tardi, descriverà come una malformazione del pensiero teologico?
E il cane coraggioso non potrebbe essere là per simboleggiare proprio il contrario, una teologia che sa di essere al servizio della fede e che corre il rischio di rendersi ridicola, tentando di riportare la tirannia e l’arroganza al loro posto? Se così è, quale monito ci viene dal bassorilievo sul pulpito di Troia, a noi così come ai predicatori e ai teologi di tutti i tempi!

Esso offre una sorta di specchio a chi parla e a chi ascolta. Invita a un esame di coscienza i pastori e i teologi. Gli uni e gli altri, infatti, possono proteggere o divorare. E così, indicando una problematica che resta sempre attuale, l’immagine ci riguarda tutti”.

Con uno scatto intellettuale degno del raffinato teologo, più che del pragmatico sovrano, Benedetto XVI decide, con la sua apparente improvvisa “rinuncia”, di lasciare i panni dell’Agnello al suo successore, per assumere quelli della fedeltà del cane-bianco e moltiplicarne la poliedricità dei riflessi di solidarietà e di coraggio nell’impavida azione di salvataggio.

Rimettendo il mandato nelle mani della Chiesa, chiude il cerchio aperto col primo messaggio “ai Signori Cardinali”: torna alla sua vigna, dopo l’esperienza in quella del Signore. Una vigna rivelatasi troppo grande per un uomo solo, che avrebbe avuto tanto bisogno di “collegialità”, e invece dal primo momento ha dovuto confrontarsi con quel “mordersi e divorarsi a vicenda, come espressione di una libertà male intesa”.

E’ evidente come, dalle parole dell’allora futuro Pontefice, emergano già le linee di una predisposizione all’analisi critica e autocritica, testimonianza di una personalità “destinata a stupirci”, come ebbe ad affermare il cardinale Martini, “e che ci riserverà molte sorprese, rispetto agli stereotipi con cui è stato definito un po’ troppo sbrigativamente”. Aggiungendo, anche, che “Benedetto XVI sarà un pastore che aprirà per lui e per noi strade inconsuete”. Un profeta!

Il suo rapporto con la fede resta intimamente essenziale e profondamente identitario. Coerente con i suoi Maestri, rappresentante di Pietro (da oggi “emerito”) e fedele all’insegnamento di Paolo, continuerà a tenere a bada le tendenze a considerare la teologia come una sorta di “magistero dottrinale”. La sua santa inquietudine testimonierà, fino in fondo, il dono della conversione come “rinuncia all’io per vivere in un altro: Cristo”. Perdersi, per poi ritrovarsi in Lui (R. Guardini). Perché la fede indica sempre un’appartenenza e quindi un uscire da sé. E continuerà ad esortare Chiesa e Teologia ad agire e pensare partendo sempre da Dio, e a far proprie le parole di Paolo: “Io, ma non sono più io che vedo”.

di Antonio V. Gelormini
     (28/02/2013)

 

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